Usa facebook in azienda, secondo il Tribunale di Milano è legittimo il licenziamento – News 020/2015
Il Tribunale di Milano esamina il ricorso contro il licenziamento di un dipendente per l’utilizzo improprio di internet e di facebook in azienda e approfondisce la tematica dell’utilizzo dei social media in azienda.
Un’azienda procedeva in data 19 dicembre 2013 al licenziamento per giusta causa e con effetto immediato di un dipendente per utilizzo improprio di internet sul posto di lavoro.
L’azienda aveva contestato nel caso specifico al dipendente di avere pubblicato durante gli orari lavorativi sul proprio profilo personale del social network facebook tre fotografie che riprendevano lo stesso dipendente con alcuni colleghi all’interno di un ufficio dell’azienda e di avere postato sotto la foto dei commenti denigratori (“come si lavora nell’azienda di M”) e post gravemente offensivi dell’immagine dell’azienda.
L’azienda aveva inoltre contestato al dipendente di avere effettuato anche degli accessi internet a siti pornografici ( evidenziati nell’elenco allegato alla lettera di contestazione).
Le sopra citate condotte costituiscono secondo l’azienda gravi violazioni di norme di legge e di basilari doveri del prestatore di lavoro e hanno determinato la rottura del vincolo fiduciario con l’impresa.
Il dipendente aveva presentato delle giustificazioni scritte che erano tuttavia pervenute tardivamente al datore di lavoro che aveva proceduto al licenziamento.
Il dipendente ha impugnato il sopra citato licenziamento, ha negato ogni responsabilità e ha dedotto nel ricorso introduttivo al giudice di essere stato vittima di un accesso abusivo al proprio profilo facebook: secondo la ricostruzione del dipendente licenziato, un altro soggetto avrebbe così pubblicato in sua vece le fotografie e i commenti offensivi.
Il dipendente ha osservato inoltre di non essere l’unico a lavorare durante l’orario del turno durante il quale erano state pubblicate le fotografie e i commenti ingiuriosi e di non essere l’unico lavoratore ad avere accesso al locale dove erano ubicati i computer.
La sopra citata tesi difensiva non è stata ritenuta verosimile e non ha retto alla luce delle testimonianze dei colleghi dello stesso turno; le sopra citate testimonianze hanno, infatti, evidenziato come il dipendente avesse utilizzato il computer il giorno e all’ora della pubblicazione delle fotografie su facebook all’interno del reparto della logistica.
Dalle testimonianze dei colleghi di lavoro, ritenute dal giudice attendibili, è stato provato che il dipendente licenziato aveva utilizzato il pc, nell’arco temporale in cui sono stati registrati molteplici accessi a siti a contenuto pornografico.
Dalla cronologia delle navigazioni del pc dell’area logistica sono state inoltre rilevate, delle specifiche ricerche on line su una struttura sanitaria presso la quale era ricoverato lo zio del dipendente licenziato.
Il giudice ha ritenuto le sopra citate condotte di particolare gravità tali da configurare, entrambe, un’evidente violazione dei più elementari doveri di diligenza, lealtà e correttezza.
Uno degli aspetti più interessanti della sentenza è l’approfondimento del profilo della pubblicazione on line della fotografie su facebook; si tratta nello specifico di una foto che ritrae il dipendente con i colleghi del turno durante l’orario di ufficio.
La difesa aveva specificato che le foto non erano state pubblicate sul sito dell’azienda e che le didascalie; i commenti offensivi on line non recavano la denominazione della società .
Secondo il giudice tuttavia, le foto sopra citate pubblicate on line nella pagina facebook pubblica del ricorrente, risultavano accessibili a chiunque e, senz’altro, a tutta la cerchia delle conoscenze più o meno strette del lavoratore: dunque, a tutti quei soggetti (familiari, colleghi o comunque conoscenti) che erano perfettamente in grado di associare l’espressione denigratoria all’impresa datrice di lavoro del dipendente.
La frase “azienda di M.” costituisce, secondo il giudice, un’ingiuria idonea, per le modalità con le quali è stata manifestata, a determinare una lesione dell’immagine aziendale.
La difesa non ha dedotto alcuna vicenda particolare o ragione di tensione tale da giustificare una reazione emotiva del dipendente tale da giustificare o attenuare la gravità dell’episodio.
Secondo il giudice la sola navigazione on line su siti pornografici, costituisce di per sé un comportamento del tutto idoneo, a determinare un’irrimediabile lesione del vincolo fiduciario.
Il dipendente nella sua difesa aveva sottolineato di non essere a conoscenza del codice disciplinare né di dove fosse affisso.
Il giudice ha evidenziato come la navigazione on line e l’utilizzo del pc da parte del dipendente non fosse prevista nelle sue mansioni di competenza. Tali condotte sono state realizzate durante l’orario di lavoro con relativo abbandono del posto costituiscono delle condotte di gravità tale da rendere irrilevante il sopra citato profilo.
Il giudice ha richiamato sul punto il concetto di violazione di ciò che “la coscienza sociale considera il minimum etico” (secondo consolidata giurisprudenza: Cass. Civ., Sez. lavoro, 1 settembre 2009, n. 12735).
Per completezza di analisi, si specifica che, come accertato dal giudice, il sopra citato codice disciplinare era regolarmente esposto presso le bacheche aziendali.
Le condotte sopra citate di navigazioni su siti pornografici e di pubblicazione on line di commenti offensivi e denigratori dell’immagine dell’azienda sono pienamente riconducibili ai casi previsti dalla contrattazione collettiva di settore (C.C.N.L. Gomma e Plastica Aziende Industriali) che prevedono il licenziamento con immediata rescissione del rapporto di lavoro in tutti i casi in cui il lavoratore “commetta gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro o che provochi alla azienda grave nocumento morale o materiale…”.
Il giudice per quanto sopra premesso ha pertanto con ordinanza immediatamente esecutiva ex lege rigettato il ricorso, confermato il licenziamento e ha condannato il dipendente alla rifusione delle spese di lite liquidate in complessivi € 3.500,00 oltre accessori.
Il contenuto dell’ordinanza e le relative argomentazioni sono pienamente condivisibili e in linea con l’orientamento anche della Corte di Cassazione (sentenza n. 17859 del 11 agosto 2014) e della Corte d’Appello di Torino (sentenza n. 2149 del 2012) che ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, durante l’orario di lavoro, utilizzava la connessione internet aziendale per accedere a siti pornografici.
Il caso in esame riguarda l’utilizzo del pc aziendale e di internet non previsto dalle mansioni del dipendente (una tipologia di attività sempre più residuale alla luce della pervasività degli strumenti elettronici in azienda) e non approfondisce, a riguardo, se l’impresa avesse o meno adottato un disciplinare in materia di posta elettronica ed internet secondo le prescrizioni del provvedimento generale del Garante privacy del 1 marzo 2007 in materia di posta elettronica ed internet.
Il caso in esame è molto simile al caso oggetto del provvedimento del Garante per la protezione dei dati del 2 febbraio 2006 di un licenziamento di un dipendente di una casa di cura a causa delle navigazioni su siti pornografici.
Il Garante privacy in quel caso aveva ritenuto il trattamento di dati idonei a rilevare l’orientamento sessuale del dipendente, trattamento effettuato attraverso i cookie di navigazione, fosse eccedente rispetto alle finalità dell’impresa.
L’impresa secondo il Garante “avrebbe potuto dimostrare l’illiceità del … comportamento [del lavoratore] in rapporto al corretto uso degli strumenti affidati sul luogo di lavoro limitandosi a provare in altro modo l’esistenza di accessi indebiti alla rete e i relativi tempi di collegamento“.
Nel caso in esame non si è posti il problema del divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori previsto dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970).
Si osserva, infatti, come la giurisprudenza riconosca la legittimità dei controlli difensivi sull’attività lavorativa quando questa si pone al di fuori dell’attività di esecuzione del contratto e, dunque, sia svolta in violazione dei doveri di collaborazione, che caratterizzano il rapporto di lavoro subordinato. Il controllo sul pc e sulle navigazioni on line è stato effettuato ex post dopo la pubblicazione on line delle immagini e post offensive.
L’ordinanza in esame approfondisce anche il profilo dell’utilizzo di post denigratori su facebook in azienda e conferma l’ orientamento giurisprudenziale del licenziamento per giusta causa (Corte di Appello di Torino, sentenza del 17 luglio 2014 n. 164).
Il licenziamento per giusta causa per utilizzo di social media si inserisce nel filone giurisprudenziale consolidato del licenziamento per l’utilizzo improprio di internet per uso improprio di internet che ha diversi precedenti (v.navigazione internet da cellulare aziendale: Trib. di Genova 2 maggio 2005).
Si osservi come nel caso in esame il giudice di fronte alla pubblicazione di fotografie e di post sul profilo pubblico di facebook, non abbia analizzato, sotto il profilo della gravità della condotta, se il dipendente avesse nei suoi contatti di facebook; dirigenti, colleghi, clienti e fornitori dell’azienda e se avesse attivato specifiche opzioni e filtri nella condivisione delle fotografie e commenti.
L’ordinanza non approfondisce il profilo della diffamazione tramite internet che configura la fattispecie di diffamazione aggravata fattispecie prevista dall’art. 595, comma 3 c.p., in quanto commessa con altro (rispetto alla stampa) mezzo di pubblicità ” dato che “essendo internet un potente mezzo di diffusione di notizie, immagini ed idee (almeno quanto la stampa, la radio e la televisione) anche attraverso tale strumento di comunicazione si estrinseca il diritto di esprimere le proprie opinioni, tutelato dall’art. 21 cost., che, per essere legittimo, deve essere esercitato rispettando le condizioni e i limiti dei diritti di cronaca e di critica” (Cass. Pen., Sez. V, 1 luglio 2008, n. 31392; Cass. Pen., Sez. V, Sent. 14 dicembre 2011, n. 46504). Nel caso in esame è evidente che siamo, alla luce della forza denigratoria delle espressioni utilizzate e del contesto, bel oltre il diritto di cronaca e di critica.
L’azienda si è riservata di agire nei confronti del dipendente per il risarcimento dei danni patiti dalla stessa (reputazione; immagine; eventuale danneggiamento del sistema informatico).
Il caso in esame dimostra come la sicurezza informatica sia ancora considerata in alcune realtà aziendali come un optional e non come un asset strategico e un valore competitivo.
La condotta scriteriata del dipendente rivela una grave assenza di consapevolezza degli strumenti utilizzati (internet e social media) con grave danno alla reputazione sia dei singoli che dell’azienda: l’uso improprio degli strumenti aziendali può inoltre, infatti, esporre l’azienda al rischio di diffusione di virus, perdita di dati e molteplici danni.
Gli unici strumenti di prevenzione sono costituiti dalle attività di informazione/formazione delle persone, dall’adozione di adeguate policy e di pianificazione di verifiche operative e audit in materia di sicurezza informatica e privacy, attività ormai indispensabili alla luce delle linee guida della Confindustria in materia di modelli organizzativi ex D.Lgs. n. 231 del 2001 e attività imprescindibili per proteggere le nostre aziende in un mercato sempre più difficile e competitivo.
Fonte: Il quotidiano giuridico Ipsoa.
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